Viviana Tanzi
Assessore alle politiche educative del Comune di Sant’Ilario D’Enza

Come si interpreta la collaborazione tra genitori e scuole oggi

Alla riapertura del Nido e delle Scuole dell’Infanzia Comunali si sono incontrati, come d’uso, tutti i genitori in assemblea e l’Amministrazione Comunale ha colto l’occasione per sottolineare come la relazione tra genitori e scuole sia fondamentale, ma anche come questa sia molto cambiata negli anni. La nascita dei servizi educativi per l’infanzia ha rappresentato un momento di svolta per le famiglie e per l’intera comunità, ed ancora oggi essi rappresentano un punto fermo della vita sociale del Paese. Tuttavia come si sia declinata l’alleanza educativa nel tempo ci testimonia dei cambiamenti dei valori di comunità e di educazione.

All’avvio dei Servizi Educativi negli anni 70 la relazione tra casa e scuola era improntata alla reciproca conferma. I genitori legittimavano la qualità del servizio in stretta relazione con la propria scelta del suo utilizzo. Ci si riteneva buoni genitori in quanto ci si avvaleva di un buon servizio, era una credenziale aprioristica e “politica” di reciproca conferma( logica della conferma reciproca).
Negli anni 80\90 ecc la relazione si sbilancia. Con la ricerca pedagogica, la specializzazione e professionalizzazione dei servizi le famiglie si affidano e si instaura un progressivo sbilanciamento nella responsabilità  e sulle competenze educativa. Le famiglie si ritagliano una nicchia nella relazione affettiva e demandano l’educazione normativa ai servizi ( logica della delega).
Dagli anni 2000 si assiste ad un progressivo ridimensionamento del sapere scientifico e tecnico che viene riconosciuto all’interno di un mandato molto più definito, nei limiti e nella cornice delle richieste e delle indicazioni famigliari, sempre più personalistiche. Le relazioni si ribaltano, il sapere professionale non è più riconosciuto come l’unico ma i genitori si propongono come competenti e concorrenti nelle scelte educative dei servizi ( logica del controllo).
Questa sintetica e necessariamente semplificata descrizione dell’evoluzione della relazione tra famiglie e servizi vuole mettere in luce come le trasformazioni sociali e culturali abbiano una ricaduta significativa su cosa si intenda per partecipazione, collaborazione, condivisione.

Nella relazione tra Famiglie e Servizi si evidenziano sostanziali cambiamenti di passo, le aspettative sono divere: i servizi continuano a proporre la socializzazione e la relazione tra pari come uno dei fondamenti del progetto educativo, le famiglie danno invece più rilevanza alla stimolazione ed agli apprendimenti, delimitando il valore sociale dell’esperienza.  Le modalità di comunicazione tra personale e famiglie diventa più informale, cadono le presenze nelle sedi istituzionali, ma sono sempre più richieste occasioni personali ed estemporanee.  I sistemi di informazione passano da quelle gruppali a quelle personali, da cadenzate e programmate a sporadiche ed estemporanee, il timbro  prevalente è quello emotivo, empatico, personale a discapito di quello istituzionale e cognitivo.

Si assiste alla progressiva erosione delle presenze nei luoghi canonici dell’incontro tra personale e genitori (assemblee, incontri di sezione, comitati di gestione, ecc) per avere invece un vivace ed assiduo scambio permanete tramite rete. In questo modo ci si incontra e ci si confronta  in modo veloce, tempestivo e con una larga platea di soggetti, ma con il rischio di trasformare il dibattito in  chiacchiera anziché in confronto. Tutto ciò non va ovviamente represso, cosa peraltro impossibile, ma va riequilibrato con un sistema complementare e robusto di incontri e presenze per creare contesti allargati in cui non solo parlare, ma anche e soprattutto capire, riflettere, confrontarsi, ipotizzare, scambiare pareri, mentalizzare.
Cioè occorre passare dalla comunicazione alla riflessione, dallo sfogo solitario, allo scambio collettivo, dal facile amicalismo virtuale che ricerca il consenso ed il confronto tra simili al faticoso rapporto interpersonale che porta dubbi ed incertezze.  Gli scambi comunicativi all’interno della rete, anche quando riguardano contenuti importanti e significativi, sono trattati non solo in modo veloce e stringato ma anche in modo semplificato per essere immediatamente percepiti ed assimilati. Parlare di educazione in questo modo non è conveniente.
Anzi è rischioso. In ambito educativo la categoria del dubbio, dell’attesa, dell’interrogazione è una costante ed è un dovere.

L’ erosione dei principi partecipazione e condivisione nei luoghi formalmente deputati  ha anche messo in crisi il principio di rappresentatività. Oggi sono pochi i genitori che si candidano nei consigli di gestione. Si nominano delegati che tuttavia non hanno deleghe ma solo funzioni di “trasmettitori di notizie”. Ogni decisione assunta da gruppi di rappresentanza viene messa immediatamente in discussione nella rete, in cui ognuno può esprimere non solo pareri, ma anche giudizi e sentenze. Così anche gli organismi di gestione previsti nei servizi per l’infanzia e nelle scuole si stanno trasformando  da spazi di ascolto e rappresentanza in  luoghi di divulgazione e trasmissione di informazione, da cui far partire una consultazione multipla che spesso esclude ogni raggiungimento di un’intesa produttiva. Luoghi in cui i genitori portano solo la propria singola  rappresentanza ma in cui è difficilissimo fare sintesi.   Queste “ piazze virtuali”, fatte più per parlare che per ascoltare, sono difficilissime da gestire e quasi impossibili da controllare. Alcuni genitori, esasperati e stanchi si ritirano, altri rinviano le decisioni ad alti, troppo spesso l’incontro tra genitori ed insegnanti si dissolve.

Rimpiangere il passato è inutile, ogni formula è frutto del suo tempo. Tuttavia riflettere sulle positività e sui limiti del presente è necessario e doveroso. 
L’amministrazione comunale, portando queste riflessioni nelle assemblee di apertura dei servizi, ha invitato tutti i genitori ed il personale ha lavorare nel corso del nuovo anno scolastico su questi temi. La condivisione degli intenti educativi resta un principio indiscutibile, ma come questa debba essere realizzata e sostenuta è un prodotto della contemporaneità. Compito difficile e faticoso a cui ognuno è chiamato a contribuire.

E’ GIUSTO DARE FIDUCIA?

Le insegnanti chiedono di avere fiducia nella scuola. Gli esperti dicono che i genitori devono avere fiducia nel proprio figlio per non crescerlo dipendente ed insicuro.  I bambini domandano di fare da soli e di avere fiducia nelle roro capacità. Ma i pericoli e le insidie del mondo sono innumerevoli.
Cosa significa dare fiducia? 
Come si educano i figli a non fidarsi dei malintenzionati? 
Cosa dobbiamo fare perché sappiano dosare le loro forze e siano responsabili?
C’è un’età giusta per dare fiducia?

Il tema della fiducia, in sé stessi, negli altri, nel proprio figlio, è uno dei tarli e tormenti dei genitori, che non abbandoneranno mai, anche quando i figli cresceranno. È un argomento complesso e vischioso, che spesso impantana le relazioni e le intrappola in circuiti chiusi da cui è difficile uscire.
Sono molte le emozioni in gioco e si scatenano già dai primi giorni di vita, quando la madre sembra non fidarsi di nessuno tranne che di sé stessa. Ma anche delle sue capacità comincia ben presto a dubitare innestando quella sana apertura agli altri, indispensabile per allentare la morsa della relazione indifferenziata tra lei ed il suo bambino.
“Mio figlio è piccolo ed ha bisogno di un ambiente sicuro e protetto; nel mondo esterno può succedere di tutto, anzi succede ogni giorno proprio di tutto; se non ti vedo non sto bene; gli altri non ti capiscono, come faccio a mandarlo al nido od alla scuola infanzia se le insegnanti sono solo due ed i bambini sono tanti, perciò ..non si sa mai!”
Insomma il problema non è la fiducia o la sfiducia negli altri o nella scuola, ma la convinzione implicita che la cura, la protezione, l’attenzione ai bambini piccoli va assicurata esclusivamente dallo sguardo materno o nella ristretta cerchia familiare.
Vediamo di capire, dietro a queste argomentazioni ed aspettative, cosa può nascondersi e perché si tenda a pensare che l’educazione debba  fondamentalmente dare protezione. Cominciamo col prendere in esame l’affermazione  che il bambino è piccolo, perciò alcune esperienza si possono rinviare più avanti quando sarà più grande e capirà meglio.

Dietro questa convinzione vi è l’idea che ci possa essere una netta separazione tra le esperienze che si fanno senza capire e quelle, quando si è grandi, che si fanno consapevolmente. Ma la realtà non ha questa demarcazione netta, al contrario è proprio crescendo giorno dopo giorno e facendo esperienza che il bambino apprende, non c’è un momento giusto per farla, ma un modo giusto per farla!
Rinviare ad altri tempi, ad altre maturità è un grande atto di sfiducia nei confronti del bambino, oltre che nei confronti di papà, nonni ed insegnanti.
Ogni giorno, poco per volta, si devono proporre attività che consentano al bambino di mettersi alla prova, di capire quello che riesce a fare da solo, delle cose in cui ha bisogno dell’adulto,  così piano piano costruisce la capacità di riconoscere i problemi, ed impara a non mettersi in pericolo. Questa consapevolezza non si apprende magicamente perché gli adulti, con le loro raccomandazioni, lo mettono in guardia, ma perché mettendosi in gioco direttamente si impara.

Un secondo aspetto segnalato spesso dai genitori è l’ inquietudine che si sente quandolo si lascia ad altri oda scuola. È il malessere che si avverte perché non si riesce a separarsene, si fa fatica ad immaginarselo senza l’ aiuto ed il sostegno dei familiari, lasciato solo in un mondo così grande  e pericoloso.
Questo vissuto non è da sottovalutare, è pieno di implicazioni emotive che sicuramente il bambino percepirà, e non si può risolvere con un banale “ non si preoccupi” lanciato da babysitter o insegnanti intanto che salutano.
È una preoccupazione che sta dicendo che c’è ancora un legame  così forte tra genitori e bambino che il processo di separazione emotivo non è ancora avvenuto, perciò ogni separazione fisica, dal saluto del mattino, alla notte passata dai nonni, alla visita ad un amichetto, sono una grande pena. La questione in gioco è: siamo persone separate o siamo corpi in un’anima sola?
Con calma e pazienza va affrontato questo nodo; per arrivare a comprendere, non solo razionalmente ma soprattutto emotivamente, che il bambino ha una sua autonomia ed identità, separata, unica, solida, in grado di portare nella mente e nel cuore la sicurezza dell’amore materno e paterno, senza avere bisogno di tenerli fisicamente presenti.
Questo passaggio evolutivo della crescita è fondamentale, i genitori devono fare la grande fatica di avere fiducia in loro stessi, come genitori competenti e nelle capacità del loro bambino di camminare nel mondo da solo: è la fiducia nel figlio che non va dubitata.

Un altro aspetto che viene sollevato è il problema della sicurezza, della garanzia che non vi siano pericoli per il figlio,la convinzione che si viva in un mondo brutto, rischioso, cattivo. L’argomentazione che viene portata è quella, ovvia e comprensibile, che i bambini sono ingenui, fiduciosi, troppo giovani per capire i pericoli e le insidie esterne, ed allora è meglio evitare di correre inutili rischi. Uscire solo accompagnati, spostarsi in macchina, andare da gente conosciuta, diffidare degli estranei: ecco la soluzione che sta diventando il problema. Siamo passati dall’educazione come mezzo per andare nel mondo, all’educazione come scopo per la protezione dal mondo, come vasi non comunicanti.
In realtà vi è la convinzione profonda che solo l’ambiente familiare, e scolastico come suo naturale prolungamento( ma con riserva !), sia tranquillo ed idoneo a crescere i bambini. Fuori dalle mura di casa vi è un mondo oscuro, dove gli errori si pagano troppo cari.
Anche questa naturale preoccupazione dei genitori, se portata all’eccesso, può creare problemi, perché i bambini sanno che per diventare grandi devono mettersi in gioco fuori di casa, fuori dal controllo dei genitori, fuori dagli sguardi troppo protettivi degli adulti. In casa si resta sempre figli, nel mondo si diventa persone.
Questo non significa che vanno buttati senza cautele nella realtà esterna, al contrario.
Significa invece che si devono sfruttare tutte le occasioni, che il tempo della prima infanzia ci consente, per fare sperimentare il rischio mettendoli alla prova per gradi e con ostacoli proporzionati all’età.

Senza errori non si cresce, ci si può solo “ addestrare” ad evitare l’errore, come i un enorme e fittizio gioco virtuale.
Proteggere evitando di metterli alla prova è una strada senza uscita. Protezione ed esperienza, fatta per gradi ed in autonomia, è la miscela giusta per abituare il bambino a valutare persone e cose, comprendere le proprie risorse, metterle alla prova per gradi, capire il limite tra quanto  è possibile raggiungere e quanto non è ancora proporzionato alle proprie possibilità.  Questo dosaggio di esperienza e riflessione serve a valutare con criterio e responsabilità gli ostacoli e le esperienze che si possono affrontare. 
Evitare di cimentarsi con il mondo esterno, oppure percorrerlo con la corazza protettiva degli adulti, può passare due messaggi molto rischiosi: senza di me non ce la puoi fare e solo io ti posso aiutare, oppure tu da solo non sei in grado di affrontare la vita. Squalifica e dipendenza sono due facce di una stessa medaglia.
Quando diventeranno più grandi e non sarà più possibili trattenerli sotto le ali domestiche i giovani avranno davanti due strade, entrambe devastanti: od il ripiegamento per paura di non farcela con grande sfiducia in sé, o la sfida ad oltranza che li porta a gareggiare con la morte per dimostrare che non hanno paura, che sono in grado di cavarsela da soli.
Troppe volte gli adolescenti si trovano a questo bivio perché da piccoli sono stati troppo protetti, così per capire se sono davvero grandi, si mettono realmente in pericolo.
Ancora una volta bisogna dire che non c’è un tempo giusto per incontrare l’errore, il rischio, ma un modo giusto: cioè poco per volta, a gradi, fin da piccoli. Solo così potranno conoscerli, controllarli, e affrontarli.
L’illusione della sicurezza assoluta è un grande abbaglio del nostro tempo, non può che creare pigrizia e mancanza di curiosità, o paura, intolleranza, rabbia negli altri.

Dimostrando loro che si ha fiducia che i nostri insegnamenti di genitori saranno ascoltati anche se non si è presenti, e affiancandoli, non sostituendoli, nelle esperienze. Abituandoli a valutare, nelle più piccole cose fino alle grandi, i rischi che potrebbero incontrare e come affrontarli. 
Educandoli ad avere cura di sé e delle proprie cose, riordinando i giochi, la cameretta, le attrezzature sportive. Ad essere responsabili abituandoli a ricordare da soli piccole consegne da dare alle insegnanti od ai nonni, facendo commissioni semplici ma utili. Proponendo di passare brevi vacanze con altri adulti conoscenti, stimolandoli e rendersi meno dipendenti e contemporaneamente a prendere fiducia dalle nuove esperienze. Abituandoli alla responsabilità del mantenimento della parola data e delle promesse fatte, disapprovandoli se non ne sono all’altezza.
La scuola può essere d’aiuto spiegando e motivando pedagogicamente il valore dell’esperienza diretta, della capacità dei bambini di apprendere non solo dagli adulti ma anche dai compagni, mostrando come ogni giorno i bambini acquisiscono autonomia e fiducia se vengono messi alla prova, mostrando ai genitori come le loro legittime preoccupazioni siano prese sul serio, non per fermarsi, ma per andare avanti e gestirle al meglio. 

COME INTERVENIRE QUANDO FA CAPRICCI, URLA E PICCHIA?

Crescendo i bambini dovrebbero diventare più ubbidienti ed invece fanno capricci sempre più clamorosi, come mai?
Come educarli a non essere prepotenti, ad aspettare invece di avere tutto e subito?  Quando si comportano male o picchiano gli altri è giusto punirli oppure bisogna spiegare?

Sappiamo tutti che i bambini sono spesso irritanti e capricciosi, ma non riusciamo a capacitarsi di quanto possano diventare insopportabili se contraddetti. Come è possibile che bambini a cui si dà la massima attenzione e vengono educati con affetto e pazienza, siano prepotenti, maleducati e talvolta aggressivi?
Anche le insegnanti dei servizi per l’infanzia segnalano l’aumento di bambini che ricorrono alle mani per farsi spazio, litigano spesso con gli amici, giocano a calci e pugni, piantano grane monumentali per un nonnulla. Insomma sembra che l’ascolto e l’attenzione che gli adulti danno a questi bambini vengono ripagate da fatiche e prepotenze. Inutile dire che l’aggressività del bambino è mal tollerata dagli adulti, li mette in crisi, spesso non sanno come gestirla, si vergognano del comportamento del figlio, o lasciano correre in attesa di tempi migliori, quando il bambino crescendo sarà in grado di capire.

Prima di tutto vanno separati i comportamenti esuberanti e trasgressivi, da quelli aggressivi: non sono la stessa cosa. Il bambino che non riconosce il limite e non rispetta le regole non è necessariamente un bambino manesco e rabbioso, semplicemente esprime con primitivi canali comunicativi il suo disappunto. Difficilmente un bambino piccolo è aggressivo intenzionalmente e scientemente, utilizza l’atto aggressivo come veicolo di espressione o frustrazione. Non avendo ancora acquisito forme più evolute di comunicazione, come il linguaggio verbale, si esprime con esplosioni di emozioni che sono spesso incontrollate e spaventose anche per lui. 
Inoltre occorre capire meglio cosa sia ed a cosa serva” l’aggressività” nei bambini piccoli. Innanzi tutto va detto che una certa dose di aggressività è sana, fa parte del nostro patrimonio genetico; ci ha aiutato nel tempo a farci spazio nel mondo, a superare pericoli ed ostacoli, a  rimuovere dipendenze  per ricercare autonomia. L’aggressività infatti è una grande forza vitale che serve a differenziarsi, a rendersi autonomi e perciò ha anche una valenza positiva come carica ed energia per raggiungere i propri obiettivi.
Perciò il comportamento aggressivo non è di per sé esecrabile, ma solo l’eccesso dell’uso della forza è problematica o ,come avviene a volte,  se diventa l’esclusiva modalità di relazione e comunicazione .
Ed è anche importante analizzare in quali occasioni si scatena, se è una modalità permanente di reazione o se compare quando il bambino è stanco, frustrato, ha paura, è arrabbiato.
Indagare le origini del comportamento ci può aiutare a capirecome sostenere il bambino nel superamento di questo comportamento, non nel giustificarlo. In sostanza verificare in quali occasioni si scatena l’aggressività serve all’adulto per leggere le difficoltà del bambino.
L’adulto ha sempre il compito di intervenire, questi sfoghi d’ira sono brutti per chi li subisce ed anche per chi li fa, perciò è sempre indispensabile gestirli. Se si fa finta di nulla, se si rimprovera blandamente, se si fanno lunghe e complicate spiegazioni del perché non ci si deve comportare in quel modo, o peggio se si ricorre a drastiche punizioni, il problema si complica invece che diminuire.

Quando il bambino è molto piccolo, 1 o 2 anni, la rabbia è una reazione istintiva con cui esprime le sue emozioni incontrollate, espelle fuori di sé sentimenti pericolosi e liriversa sugli altri, senza capirne le conseguenze, talvolta addirittura stupendosi delle reazioni che suscita il suo gesto, od identificandosi con il malcapitato piangendo a calde lacrime come se fosse la vittima e non la causa. È accaduto a tutti di vedere bambini che graffiano o mordono ed al pianto del compagno rispondono disperandosi, ma non per pentimento o vergogna, sono ancora piccoli per avere questi sentimenti, semplicemente per rispecchiamento di emozioni.
Non riesce a distinguere ciò che pensa da ciò che fa, il moto istintivo di reazione è scollegato con l’effetto, non è ancora in grado di percepire che l’altro è diverso e distinto da sé. Occorrerà tempo, pazienza e fermezza per far capire che ciò che sente dentro di sé come negativo e frustrante deve essere trattenuto e pensato, non agito immediatamente ed espulso come azione violenta. Ci vuole un adulto che gli parli, e lo trattenga nel frattempo, per dirgli che comprende ciò che prova, ma non per questo gli consente di agire la sua rabbia. Piano, piano imparerà a trasformare le sue reazioni in comportamenti più appropriati e socialmente convenienti.

Verso i 3\4 anni l’abitudine a reagire senza riflettere può prendere il sopravvento e gli interventi di contenimento possono non bastare. Il bambino è consapevole che si sta comportando scorrettamente, ma non dispone di mezzi alternativi per esprimersi, oppure non ha ragioni sufficienti per sforzarsi di migliorare. E’ il momento in cui l’intervento  deciso dell’adulto è indispensabile e determinante.
 Spiegare non serve, parlare sì. Spiegare è inutile, il bambino capisce che non è così che ci si comporta, servono adulti che parlando con lui siano in grado di capirlo e motivarlo a migliorare il comportamento, senza moralismi e ricatti. E’ un bambino che ancora non sa frapporre all’emozione il pensiero e l’elaborazione della frustrazione, non sa dargli voceagisce impulsivamente, senza freni, ma consapevole degli atti che produce.  Fermarsi un attimo, pensare, direla propria rabbia è indispensabile, se questo succede, raramente seguirà una reazione aggressiva, poiché la ragione prende il sopravvento .Chiedere di trattenere un momento l’azione, utilizzando la parolaper spiegarsi, esprimere l’emozione e farsi capire, impedendo al gesto, automatico e sferzante, di imporsi è indispensabile, avendo chiaro che per il bambino è un grande sforzo, perciò va premiato e sostenuto anche nei piccoli miglioramenti che realizza.

Dopo i 6 anni i bambini hanno raggiunto una sufficiente maturità mentale ed emotiva per capire perfettamente quali siano i comportamenti corretti da tenere con adulti e compagni, cosa ci si aspetti da loro nelle varie situazioni, quali atteggiamenti tenere per essere giudicati positivamente. Tuttavia saperlo e metterlo in pratica non sono la stessa cosa. Anche in questo caso i modelli e gli esempi familiari sono fondamentali. Se vedono adulti che perdono la pazienza facilmente, alzano la voce od offendono, sarà impossibile per loro assimilare comportamenti differenti. Oppure se nel corso degli anni li si è sempre premiati, anche quando non lo meritano, sarà difficile che comprendano il significato del merito e della buona educazione. Non si impara ad essere ubbidienti e maturi improvvisamente. 
Fin dai primi giorni si veicolano informazioni e modelli, che piano piano, giorno dopo giorno si assimila e si fa propri. Spesso nelle scuole, fin dai primi anni, si segnalano casi di bullismo sia maschile che femminile. Se un tempo si imputavano a situazioni di disagio socioculturali, oggi è del tutto evidente che questo fenomeno attraversa tutti i ceti e le culture. Il disinteresse verso gli altri ed i loro sentimenti, l’esclusiva attenzione al proprio tornaconto sono diventati patrimonio culturale anche dell’infanzia che, purtroppo, ci rimanda allo specchio l’immagine di una società di adulti sempre meno solidale e rispettosa.

Il rispetto verso gli altri parte dal riconoscimento che non si è soli ed unici nell’universo umano. Questo passaggio, la relazione equilibrata e virtuosa tra io e noi, è uno dei fondamenti educativi che è andato perduto nel nostro tempo e nella nostra civiltà. Dobbiamo recuperarla come preziosa, non come ostacolo ai propri desideri, ma come unico mezzo per stare in mezzo agli altri. Naturalmente il bambino non lo impara da solo. Servono adulti che lo educano a riconoscere che senza gli altri vi è solo incertezza, inquietudine, solitudine.
Nell’infanzia serve un adulto che restituisca al bambino il valore del suo sforzo, che gli chieda esplicitamente di impegnarsi, che tenga a lui e lo incoraggi, lo ricompensi con la sua attenzione e con la sua domanda di miglioramento. L’adulto che fa finta di nulla o non interviene rimanda solo l’indifferenza ed il disimpegno che rinforza  comportamenti scorretti e nel bambino si insinua la convinzione che agli occhi dell’adulto lui  non valga nulla.
Se non c’è nessuno a cui rivolgere lo sguardo per ricevere apprezzamento o rimprovero, non vale la pena migliorarsi!
Anche in questi casi, con tempo, fermezza e pazienza, il bambino imparerà che non  gli si chiede di negare i suoi sentimenti di rabbia e frustrazione, ma di esplicitarli con le parole invece  che con gesti. Parole per spiegarsi, non per offendere.
Oggi si trovano in commercio molti libri per bambini che trattano questo argomento, leggendoli si possono dar voce ad emozioni e trovare strade per esprimersi molto più efficaci di mille discorsi complicati.

Viviana Tanzi Assessore alle politiche educative del Comune di Sant’Ilario D’Enza